di Giorgio Infranca e Pietro Semeraro
La recente risposta ad interpello dell’Agenzia delle Entrate n. 3/2022 consente di effettuare qualche riflessione ulteriore sul rapporto fra l’applicabilità del regime dei lavoratori impatriati (art. 16, DLgs. 147/2015) e requisito della residenza fiscale, con particolare riguardo al biennio 2020-2021, interessato dall’emergenza sanitaria da Covid-19.
Come noto, l’art. 16, DLgs. 147/2015 riconosce ai soggetti che si trasferiscano in Italia per svolgere attività lavorativa, un’importante riduzione del carico fiscale (con un esenzione sui redditi prodotti in Italia pari al 70% o, addirittura, al 90% in caso di trasferimento nelle regioni del Sud Italia), a condizione che non siano stati fiscalmente residenti in Italia nel biennio precedente il trasferimento e che si impegnino a restare nel nostro Paese per almeno due anni.
La recente risposta ad interpello ha avuto modo di ribadire che il requisito della residenza fiscale nel biennio anteriore a quello del trasferimento in Italia, ai fini dell’applicazione del regime degli impatriati, deve essere valutato esclusivamente con riferimento ai presupposti della residenza fiscale “domestica”, stabilita dall’art. 2, TUIR, non rilevando l’eventuale applicabilità delle Convenzione internazionali contro le doppie imposizioni.
Più in dettaglio, l’art. 2, TUIR, identifica come fiscalmente residenti in Italia i soggetti che abbiano, per la maggior parte dell’anno, la residenza o il domicilio nel nostro paese; come noto, tuttavia, la disciplina domestica deve essere combinata e potrebbe essere “superata”, in caso di conflitti, da quella contenuta nelle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, secondo le quali, a seconda dei casi, è possibile che prevalga il paese in cui il contribuente ha dei legami qualificati più significativi (cd. tie breaker rules).
Ebbene, con riferimento ai soggetti (tipicamente concittadini italiani residenti all’estero), che si siano “trasferiti” in Italia, per via della pandemia, a partire dal marzo 2020, continuando a svolgere il proprio lavoro “da remoto” a favore di un datore di lavoro estero, si pongono questioni complesse.
Difatti, contrariamente a quanto affermatosi in sede OCSE, dove si è sostenuto che i trasferimenti temporanei necessitati dalle restrizioni legate all’emergenza sanitaria non dovrebbero, in linea di principio, incidere sui requisiti della residenza fiscale, l’Agenzia delle Entrate (risposta ad interpello n. 458/2021) ha ritenuto che la permanenza in Italia, quand’anche cagionata dalla pandemia e dalle restrizioni agli spostamenti, sarebbe comunque idonea a determinare l’integrazione del requisito del domicilio in Italia e con esso della residenza fiscale in Italia ai sensi dell’art. 2, TUIR, ove detto domicilio si protragga per la maggior parte dell’anno (fatta sempre salva l’applicazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, ai fini dell’individuazione dello stato in cui assoggettare a tassazione i redditi del contribuente in caso di conflitto di residenza).
Ebbene, questa presa di posizione, sebbene non espressa in materia di “impatriati”, ove fosse connessa a quanto ribadito nella recente risposta 3/2022, potrebbe condurre a non poche difficoltà applicative per quei contribuenti che:
- seppure formalmente residenti all’estero nel 2020 e nel 2021, abbiano trascorso in Italia la maggior parte del proprio tempo, trasferendovi, almeno secondo la tesi dell’Agenzia delle Entrate, il domicilio; e
- intendano applicare il regime degli impatriati a partire dall’anno 2022.
Per tutti questi soggetti, infatti, l’Agenzia potrebbe, in linea di principio, ritenere integrata la residenza domestica per le annualità 2020 e 2021 (sempre fatta salva l’applicazione delle Convenzioni internazionali che però, come visto, non sarebbero invocabili ai fini dell’applicazione del regime degli impatriati), così mettendo a rischio l’applicazione del beneficio. In quest’ottica, dunque, diviene necessario ponderare attentamente le proprie scelte, al fine di ridurre potenziali rischi di contestazione