di Giorgio Infranca e Pietro Semeraro
La giurisdizione tributaria, pur se chiamata a svolgere un ruolo delicatissimo e immediatamente tangibile per le migliaia di cittadini/contribuenti in lite con il Fisco, continua a navigare in acque incerte; nonostante gli enormi volumi di gettito erariale ogni anno discussi nelle Commissioni Tributarie italiane (solo nel 2019, stando alla relazione annuale del MEF, sono pervenuti ricorsi in primo grado per un valore complessivo di oltre 13 miliardi di euro e appelli in secondo grado per oltre 9 miliardi), la giustizia tributaria continua a essere gestita e considerata come una giustizia di “Serie B”.
Ad oggi, infatti, nonostante da anni si continui a richiedere a gran voce una riforma strutturale della giurisdizione tributaria (e diversi progetti in tal senso sono attualmente “arenati” in Parlamento), le decisioni continuano a essere affidate a giudici spesso non togati e comunque non a tempo pieno e non “specializzati” – in una materia, peraltro, in cui la specializzazione è tutto. Ma non basta, perché alla scarsità di risorse “organiche”, si aggiunge anche un’evidente scarsità di risorse materiali che ostacolano non poco gli attori in gioco (giudici compresi) nello svolgimento delle proprie attività.
Lo stesso Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Ruffini, nel corso dell’audizione dello scorso 11 gennaio in Commissione Finanze del Senato e della Camera in materia di riforma dell’IRPEF e altri aspetti del sistema tributario, ha auspicato una riforma della giustizia tributaria con professionalizzazione dei giudici tributari.
Ci si aspettava dunque che nel Recovery potesse trovare ingresso finalmente la tanto attesa riforma della giustizia tributaria.
Ed invece, nemmeno un rigo….
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